Corriere della Sera
13 marzo 2015
Gian Antonio Stella
Le voragini, le erbacce, i cespugli e gli alberelli che da anni devastano il Cretto di Alberto Burri, il sudario di cemento che copre le macerie di Gibellina e costituisce la più grande opera di Land Art d’Europa, sono ancora lì. Umilianti. Indecorosi. Col corredo, sulle creste dei monti che sovrastano la cittadina distrutta dal sisma, di una selva di pale eoliche. Tirate su senza rispetto per i morti rimasti sepolti sotto le rovine.
Per ricordare il centenario della nascita del grande artista umbro, al quale molti Paesi e su tutti gli Stati Uniti hanno dedicato solenni celebrazioni centrate sul 12 marzo, le autorità siciliane e italiane hanno preferito mettere i soldi sul completamento dell’opera. Cioè sull’aggiunta, nuova di zecca, di quella parte che, venuti a mancare i soldi alla fine degli anni Ottanta, era stata progettata, ma mai costruita. E il restauro della parte esistente abbandonata al degrado? Domani, ci penseranno domani…
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Era bellissimo, il Grande Cretto del Burri. E c’era chi sperava che, per l’idea e per le dimensioni, potesse diventare non solo la tomba straziante di una umanità colpita in modo così duro, ma anche un luogo di omaggio ai defunti. E alla lunga, medicate dal tempo le ferite del ricordo, perfino un richiamo turistico. Macché. Per anni e anni l’opera d’arte è stata lasciata a se stessa. Non un giardiniere che strappasse le piantine uscite dalle fessure prima che diventassero arbusti o addirittura alberi.
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foto: arpc167.epfl.ch