la Repubblica 
6 maggio 2016
Francesco Erbani

 

«Un architetto per essere un vero architetto dev’essere un po’ boy scout, diceva Aldo van Eyck, grande progettista olandese. Vuol dire, secondo me, che non può che essere ottimista. Ma io, di motivi per essere ottimista, non ne vedo tanti». Joseph Rykwert ha compiuto pochi giorni fa novant’anni (nato a Varsavia, vive a Londra, ha insegnato negli Stati Uniti). È a Bologna per ricevere, oggi, una laurea ad honorem, che premia una formidabile carriera di storico dell’architettura e di storico della città, in particolare. È una laurea in pedagogia, un riconoscimento alle sue qualità di didatta.

L’idea di città e La seduzione del luogo sono due fra i suoi titoli (editi in Italia da Adelphi ed Einaudi): entrambi propongono l’organismo urbano, dalla Roma antica alle metropoli contemporanee, siano esse Shanghai o New York, Kinshasa o Mumbai, come forma simbolica e non solo come aggregato edilizio, più o meno pianificato. «Per quanto volga in giro lo sguardo», aggiunge, «non scorgo politiche orientate a rendere la città più giusta. Soprattutto nel mondo occidentale».

Ci arriviamo. Intanto mi dica se la città esprime ancora valori simbolici, se rappresenta la visione del mondo di chi la abita?

«In un certo senso è così. Aggiungerei: deve essere così, deve esserlo sempre. Noi vediamo la città come un corpo, come un’entità civile. Questa verità rimane immutata».

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